Ancora una puntata del nostro diario di guerra, storie di civili prigionieri in territori che non sono più nulla. Né Ucraina né Russia ma soltanto guerra e morte. Parlo da Roma, anche stavolta anonimo per proteggere la mia fonte. Oggi tre ore al telefono con una giovane ragazza nata e cresciuta a Kharkiv, dove tutt’ora risiede. Non se ne è andata a febbraio dell’anno scorso quando un missile ha centrato il palazzo di casa (l’impatto è avvenuto tra il quarto e quinto piano, lei viveva al secondo) e non se ne va ora che i razzi hanno ricominciato a volare sopra i pochi palazzi integri. Al momento si trova in un quartiere periferico di Kharkiv e contattarla non è semplice per via del razionamento di luce ed elettricità. Parla ma titubante mi chiede di poter rimanere anche lei anonima e imbarazzata per il suo inglese comincia a raccontare. Grazie alla mia compagna russofona superiamo in scioltezza gli ostacoli linguistici. Le chiedo di raccontarmi come tutto è iniziato e nella sua timidezza comincia a snocciolare la sua storia surreale e drammatica. La chiamo Iryna ma non è il suo nome, non ha più di 25 anni.
I PRIMI TEMPI
Mi racconta che a febbraio dell’anno scorso, quando tutto è iniziato, si è salvata grazie al fidanzato. Mi spiega che i bombardamenti si erano fatti più frequenti e rumorosi su Karkiv, un milione e trecentomila abitanti che di colpo scappano. “Per me che sono rimasta le bombe erano e sono la normalità. Per chi vive a Est di Kiev esplosioni, bombe e missili sono ciò che noi definiamo quotidianità”. Ma il suo ragazzo quel giorno ha intuizione: capisce che i bombardamenti sono più vicini del solito e, ricordando che bisogna avere sempre almeno due muri tra se e l’esplosione, la trascina fuori dal letto e la portata nel corridoio del palazzo. Pochi minuti dopo, forse in realtà pochi secondi, un missile colpisce il palazzo tra il quarto e il quinto piano e li costringe a fuggire. Aggiunge un dettaglio non scontato: “Secondo me è stata una provocazione da parte ucraina il fatto che in quei giorni un gruppo di militari abbia stazionato nel mio palazzo”. Divenendo un palese obiettivo per l’artiglieria russa.
I mesi successivi sono stati un continuo correre da casa al seminterrato ogni volta che si sentiva un missile volare nel cielo. Per tre lunghi mesi mi racconta di non aver mai chiuso occhio la notte per il fragore delle esplosioni. E mentre qui in Occidente ci lamentiamo quando abbiamo un paio di buste della spesa un po’ più pesanti da portare alla macchina, a Kharkiv no: è un’altra cosa. “La città non aveva rifornimenti di cibo, benzina, medicinali per mesi. L’unico modo per sopravvivere era camminare 5 kilometri tra le esplosioni per arrivare ai centri di consegna degli aiuti umanitari e internazionali che erano destinati per le persone a ovest dell’Ucraina. Alcuni amici sapendo della mia situazione mi mandavano ciò che ricevevano. Cinque km a piedi al ritorno con 30 kili di scatole, circondata da esplosioni, crateri e morti.
UCRAINA, DUE ANIME IN UN CORPO SOLO
Iryna, ora spiegami come funzionano le cose a Kharkiv. So che a Bachmut si parla, o parlava, prettamente russo. Mi dice che a Kharkiv tutti parlano russo. Mi spiega che c’è un enorme differenza tra gli ucraini dell’ovest e dell’est e che in pratica esistono due ucraine, con un confine culturale e linguistico che parte proprio da Kharkiv (o Kharkov, come la chiamano in russo). Le chiedo se supporta l’Ucraina o spera nella vittoria russa. Mi risponde con una frase che ho già sentito da altre persone che vivono a Kharkiv. Non fa il tifo per nessuno, non crede nelle dichiarazioni ucraine o russe. Non aspira a un passaporto in particolare “Per le persone che crescono o vivono sotto le bombe c’è una sola cosa nella quale sperano e sognano: il silenzio. Mi manca il suono del silenzio.”
Mi spiega che Zelensky ha basato una campagna elettorale sulla pace, sul rispetto del Donbass e dei cittadini russofoni. “Tutte promesse non mantenute”. Le sue sensazioni a riguardo è che “non si sia fatto niente per evitare questa guerra e che gli organi di informazione di Stato ormai sono mera propaganda”.
KHARKIV OGGI: IL RISCHIO DI UN RASTRELLAMENTO
Me lo ha raccontato prima: nei primi mesi la città si è svuotata, passando da circa 1.3 milioni di abitanti a circa 200mila. Negli ultimi mesi quasi tutti i cittadini sono tornati nonostante le ostilità continuino. Gli approvvigionamenti sono ancora scarsi e i controlli della polizia sono sempre più frequenti. I cittadini sono costretti a portare con sè sempre un documento fuori casa altrimenti si potrebbero avere grane ai posti di blocco o controlli. Le donne non hanno troppi problemi ma per gli uomini è obbligatorio essere identificabili e spiegare perché non si è stati arruolati. Le chiedo se sono vere le immagini di militari e appartenenti allo Sbu(il servizio di sicurezza e intelligence ucraina, il corrispettivo russo è l‘Fsb, figlio del Kgb) che sequestrano uomini nelle città ucraine per mandarli al fronte, spesso a Bachmut. Mi conferma che è tutto vero: “Avviene prevalentemente nell’Ovest del paese, non a Kharkiv per ora. Anche le donne iniziano a rischiare. Mi sono iscritta nuovamente all’università, nell’aria c’è una legge che potrebbe essere approvata entro quest’anno e costringere alla leva anche le donne”. Iryna non parla del suo ragazzo per proteggere la sua identità ma capisco che non so per quale ragione è riuscito a non essere arruolato forzatamente. Per chiudere l’argomento mi racconta che in estate (la città non la indica ma parebbero i dintorni di Kharkiv) le forze armate ucraine hanno chiuso le serrande di un supermercato e cominciato il rastrellamento di uomini da impiegare al fronte.
Mi conferma di non supportare neanche Putin dato che per lei “non puoi liberare una popolazione se i tuoi missili uccidono quella gente”. Gli ucraini nazionalisti, ultra patriottici e filo Bandera/nazisti si trovano a ovest del paese. Perché bombardare chi parla russo e non ha niente in comune con gli ucraini occidentali?” si chiede perplessa.
LA PAURA DI PARLARE: SPIE OVUNQUE
Verso il termine della chiamata veniamo interrotti dal suono delle sirene anti-aeree. Apre la finestra, inquadra un paesaggio immerso nel buio e uno squillo assillante riecheggia nella notte. Le chiedo se deve fare qualcosa o interrompere la chiamata per rifugiarsi. “No, quando senti le sirene significa che è già troppo tardi, non funzionano mai a dovere. Di solito arrivano prima i missili e poi le sirene cominciano a suonare.” Rimango basito da tanta naturalezza e calma davanti a un tale rischio. Mi spiega che le sirene risuonano dalle 10 alle 20 volte al giorno.
Per chiudere, le chiedo in modo provocatorio perché mai avesse tanta paura di fare un’intervista ed esporsi. Mi ripete un’altra frase che ho sentito diverse volte:” In guerra non puoi fidarti di nessuno, amici, parenti, sconosciuti, chi parla russo o ucraino. Sai cosa è successo in una zona periferica di Kharkiv? Un signore anziano era solito ascoltare musica risalente all’Urss (musica pop e rock, non l’Internazionale o canzoni propagandistiche). Il vicinato, quando è scoppiata la guerra, ha avvertito le autorità. Che si sono presentate da lui dicendogli chiaro e tondo: “Questa è l’ultima volta che ascolti canzoni sovietiche o avrai grossi problemi”. Un’altra forma di silenzio. Diversa dal silenzio che sogna Iryna e non ricorda più di quale pace sia fatto quel silenzio.